Malessere: l'importanza del dialogo
“Ho difficoltà!”, “Sto male!”: ne parlo o sto in silenzio?
Strade della sofferenza
Il malessere può assumere due forme: una aperta e una chiusa.
Nella forma aperta la persona esprime le difficoltà vissute e nel parlarne con qualcuno formula indirettamente una richiesta di aiuto. Questo implica la capacità di apertura alla vicinanza.
Nella forma chiusa in cui la persona sofferente indossa l’abito del rifiuto, del silenzio sui problemi che l’affliggono, l’aiuto dei propri cari o amici non arriva. Questa assenza di comunicazione è una modalità indiretta di rifiuto dell’altro su base aggressiva.
Le persone che perseguono d’istinto il bisogno di esternare le difficoltà che generano sofferenza, hanno compiuto un significativo passo nell'avvio di un percorso di aiuto.
Diversamente, invece, da coloro in cui il silenzio prende il sopravvento e a parlare è solo l’allontanamento dell’altro e la costruzione di muri.
Nell’individuo la possibile biforcazione del malessere “ne parlo” o “sto in silenzio” può avere come posta in gioco anche la vita.
Riflettiamo insieme su un fatto di cronaca
La potenza negativa e distruttiva che ha per la persona non condividere, non esternare le difficoltà vissute si osserva purtroppo nel doloroso fatto di cronaca accaduto alcuni giorni fa: un giovane muore nello schianto della sua auto alla vigilia della laurea. Laurea che i genitori apprendono essere inesistente solo in concomitanza alla sua perdita.
La loro immediata riflessione è di una morte dovuta alla fragilità del figlio di non essere riuscito a sostenere il confronto con loro, a parlare del malessere che lo attanagliava e delle difficoltà per gli esami che non riusciva a dare. Complice l’amara assenza di amici persi gradualmente per le differenti scelte compiute con la crescita e per la pandemia che ha assestato un duro colpo a chi più di altri aveva bisogno di una relazione di supporto tra pari.
Commuove la madre del giovane che nel corso di un’intervista per il giornale La Repubblica, rilasciata solo uno o due giorni dopo la tragedia, rivolge il pensiero agli altri figli e genitori: “Vorrei lanciare un appello ai giovani: se avete qualche problema, confrontatevi con i genitori. Per qualsiasi cosa, per una piccola bugia, parlatene. Tirate fuori ciò che avete dentro, altrimenti si creano muri impossibili da scavalcare. Ma vorrei lanciare anche un appello ai genitori»
continua «….ci sembrava che mio figlio avesse soltanto qualche giornata strana, magari solo le scatole girate. Invece aveva indossato una maschera. E noi non ce ne siamo mai accorti».
Al commento del giornalista “Del resto, non esiste un libretto di istruzioni per fare i genitori!” fatto di fronte al senso di colpa espresso dalla madre per non aver capito il figlio e per non essere riuscita a farlo aprire e quindi a svelare la bugia, che aveva invaso la sua vita, sulla laurea, dice: «Certo, ma è una cosa che mi sento di dire ora, in questo momento! Spero possa servire ad altri a non fare questi errori. Salvatevi da tutto questo dolore».
Bugie di giovani su lauree imminenti ce ne sono state tante e fortunatamente con risvolti non tragici. Tutte contraddistinte dalla stessa modalità: impossibilità a parlare, a svelare e marcare una vita parallela.
L’esperienza clinica in psicoterapia mi consente di osservare che l’incapacità a dire e la persistenza alla negazione dei fatti si può stratificare fino ad assumere, nel funzionamento psicologico del giovane, la forma di una transitoria dissociazione circoscritta - a specifico tema - dalla realtà.
Si conoscono anche da situazioni estreme accadute a giovani che il giorno della laurea, fittizia, si ritrovano con i familiari all’Università lunghe ore in attesa di sentir fare il proprio nome. Solo dinanzi allo svuotamento dell’aula dei proclamati dottori e dei loro cari, che i genitori, cercando una risposta alla situazione anomala dal personale docente, apprendono che non c’era nessuna laurea. Da lì si apre la porta alla verità per tutti e l’uscita da uno stato transitorio di alterazione della coscienza del giovane.
Questa modalità estrema di svelamento preserva paradossalmente la salute fisica del giovane. La brusca apertura della porta chiusa alla verità e l’inevitabile evidenza, per quanto dolorosa e traumatica, è di tutela dell’incolumità fisica. Così tutto si svela e viene aiutato ad uscire dal “sogno”, dalla prigione che il non parlare ha portato alle bugie. Sono i genitori in primis e gli altri poi a fare il passo di chiedere e sapere facendo sostanzialmente cerchio intorno. Tra un’alzata di voce e un feroce rimprovero emerge così chiara la sofferenza, la fragilità di un figlio non vista e rimasta fino a quel momento incompresa. Intorno un cerchio di persone che nel fare domande, nel dare la possibilità di far parlare e esprimere inevitabilmente i propri sentimenti danno un abbraccio contenitivo e protettivo.